Mimmo Jodice: le coordinate spazio-atemporali del maestro della fotografia


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Se credete che la fotografia sia essenzialmente un fermo immagine non vi siete mai imbattuti negli scatti di Mimmo Jodice, uno dei più grandi artisti della fotografia contemporanea.

Ci sono fotografie che imprimono un istante, che focalizzano un tempo, altre invece che vanno a fissare su carta non una fermata ma un viaggio, è questo il caso delle fotografie del maestro Jodice.

Il museo Madre ospita fino al 24 ottobre la più grande retrospettiva mai dedicata all’artista napoletano ed io sono andata a visitarla con gli occhi dell’infante.

Non ho alcuna dimestichezza con la fotografia e senza alcuna velleità io guardo, spesso “mi guardo” e scatto, è un mezzo che utilizzo senza patente, sbando, sbaglio la messa a fuoco, mi assesto, ma non mi fermo mai nemmeno con il rosso.

Quello che ho pensato entrando nella prima delle sale dove è allestita la retrospettiva è stato che chiunque può fotografare, comporre immagini più o meno belle, più o meno nitide, ma solo pochi come Jodice, con quelle immagini sanno bucare le coordinate spazio-temporali rendendole spazio-atemporali.

Nelle sue fotografie il bianco e nero è assoluto, il colore è come un senso di cui l’artista si è volutamente privato, come un bambino che corre bendato per sentire più forte il vento sulle guance, facendosi guidare dall’emozione di sbandare.

Lungo il percorso espositivo si incontrano i principali temi della ricerca dell’artista.
Le radici culturali del Mediterraneo, l’archeologia, “il perdurare del passato nell’identità del presente”, c’è poi la sala dedicata al lavoro più recente, quell’Attesa in cui le immagini appaiono sospese, come sedie di un teatro vuoto in cui senti già il divenire e il brusio della gente che sta per arrivare.

Vi è poi la sezione dedicata ai lavori di matrice sociale e di impegno civile degli anni sessanta e settanta, quella in cui rivedi le facce di cui non sapevi di avvertire l’assenza. Gli sguardi di bambino che riempiono di vita paesaggi sconcertanti; le mani, i piedi, le rughe i soffi di fiato, di chi lavora, prega, spera, soffre, VIVE.

Non so fare altro che invitarvi ad affrontare questo viaggio dentro le emozioni, dentro la fotografia che è una immagine piatta che deve regalare profondità a chi guarda, deve scavare, a volte svuotare, o riempire fino a far traboccare, insegnare a guardare il mondo con sguardo bramante. E lasciando il museo Madre io sono andata via con una sensazione di languore che non avevo mai provato, attraversando quelle strisce di plexiglass colorato, io mi sono ritrovata con gli occhi affamati!

La retrospettiva L’attesa 1960-2016 sarà al museo Madre di Napoli fino al 24 ottobre.
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