Mare d’aprile


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La mia amica Cri una volta me l’ha detto: “Io non possiedo nulla e appartengo a tutto. Sono proprietà delle strade che mi ospitano, del vento che le attraversa e mi conduce, degli alberi che mi danno di che respirare, delle onde che da bambina mi hanno insegnano a scavalcare con divertimento perché non mi travolgessero con fastidio”.

Il mare d’aprile è così: non è quello di luglio da cui ricevi la bellezza per l’incarnato, né quello di dicembre a cui doni la tua malinconia perché ne faccia brodo stagionale più salato. È un luogo che ti ospita e che accetti, senza necessità di scambio e con consapevolezza di sufficienza.

È l’hic et nunc che non richiede etichetta sull’invito, simile alla sabbia che entra a contatto con i piedi quando non sei sicura di volerla perché non calzi infradito bensì scarpe con i lacci.
Il mare d’aprile ha il sapore dell’attesa e il retrogusto del quasi finito ed è uno spazio temporale dove fermarsi solo qualche ora, come l’oasi sul cammino del viandante. Lo vedo bene con camicie senza maglioni che sotto non portano ancora il costume, con quei pizzi troppo leggeri a gennaio e appiccicosi a giugno, con i capelli raccolti senza le forcine che anche se scendono fa lo stesso.

Il bagnasciuga d’aprile difficilmente offre la voglia di sdraiarsi. Più spesso accoglie in piedi, asseconda gli abiti stanchi che non stancano mai, scopre le braccia e non le spalle, invoglia a restare anche se sussurra di andare.

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